MARÌ, O DELLA MALINCONICA IRREVERSIBILITÀ DEL FATO UMANO

Marì - Nicolò Cecchella_002

Un vortice di immagini messe in scena tramite la commistione di più linguaggi: il teatrodanza in primis unito alla parola, alla musica e alle luci fanno di “Marì” il viaggio nella vita di una bambina che cresce davanti agli occhi dello spettatore, testimone indiretto del compiersi di un fato cupo e pressante che chiude lentamente il tunnel della vita come una trappola dalla quale è impossibile uscire. Gabbie metaforiche e concrete: la scena è dominata da un grande quadrato dalle pareti rosso fuoco coperto da veli, attraverso i quali la Madre osserva la vicenda come in una bolla, lontana dal mondo. Quadrati a terra delimitano poi altre prigioni, definendo così lo spazio di movimenti, accadimenti, stati d’animo costretti a farsi piccoli, loro malgrado relegati in pochi centimetri. “Marì” nasce dal lavoro del Teatro dei Servi Disobbedienti, compagnia di Bologna ma che riunisce artisti provenienti da diverse città italiane e da diversi percorsi artistici. Una drammaturgia per apparizioni prende vita attraverso il testo di due canzoni firmate da Carmen Consoli, dall’album “Elettra”, che la regista Federica Amatuccio di trasforma in narrazione. “Mio zio” e “Mandaci una cartolina” diventano dunque il punto di partenza di una storia di violenza e di omertà in cui, quasi a voler sopperire alla mancanza di un forte impianto testuale, fulcro dell’azione diventano le musiche originali di Andrea Gianessi. La potenza innescata dalle melodie popolari di cerimonie religiose paesane, nell’incalzare dei movimenti delle performer in scena, accompagna anche il punto di maggiore impatto emotivo: il canto in dialetto siciliano misto al pianto che la protagonista vive come catarsi del momento peggiore della sua vita. La pièce è imperniata dunque sulla figura di Marì (Francesca Lateana), attorno alla quale ruotano la Madre (Martina Morabito) imponente e impettita, sorda al dolore della figlia, la Morte (Francesca Di Paolo) “compagna” di viaggio fin dall’infanzia e la stessa Marì da adulta (Valeria Iudici) guida simbolica della “sorella gemella”, conforto e allo stesso tempo motore della decisione finale e definitiva. Il male viene sconfitto dal bene, lo zio muore per mano della nipote a cui ha tolto il sorriso. L’impressione con la quale si esce da teatro però non è quella di una giusta resa dei conti, piuttosto la doccia fredda che viene dalla consapevolezza dell’irreversibilità del destino umano, vaso di terracotta i cui mille pezzi, una volta caduto a terra, risultano impossibili da rimettere insieme.

Recensione allo spettacolo Marì
del Teatro dei Servi Disobbedienti a cura di

Erika Di Bennardo