Recensione: “Intimità: repetita non iuvant”

Nel nome della compagnia, Amor Vacui, è già presente uno dei pilastri della costruzione di Intimità: la ricerca di essenzialità, tanto nell’utilizzo dello spazio scenico quanto nella costruzione del testo. In scena ci sono solo i tre attori – Andrea Bellacicco, Eleonora Panizza e Andrea Tonin – nudi ma non del tutto: in intimo. Proprio questa nudità parziale – che, unita alla rottura immediata della quarta parete, mira a stabilire sin dall’inizio un contatto ravvicinato col pubblico – verrà utilizzata come espediente scenico per distinguere le tre fasi dello spettacolo; ai cambi nella biancheria corrispondono cambi generazionali, i personaggi inizialmente trentenni diventano adolescenti e poi anziani.
Se l’intimo cambia, a non cambiare nei protagonisti è la gestione dell’intimità, e proprio questo è il cuore dello spettacolo: i tre attori raccontano, esasperandola, la tendenza umana a ripetere nelle relazioni di coppia gli stessi comportamenti, gli stessi errori, le stesse scelte. E l’intera struttura dello spettacolo sembra essere sorretta da questa ossessione per la ripetizione, la forma riflette il contenuto seguendo un andamento fortemente sistematico, sia nell’alternanza di monologhi e parti corali sulla scena sia nei meccanismi comici, sempre più prevedibili nel procedere dello spettacolo.
«È solo un caso se faccio il liceo classico…come mia sorella / È solo un caso se faccio schifo…come la mia vita». Il linguaggio utilizzato, in questo senso, ricorda un tipo di comunicazione memetica, riconducibile cioè a piccole unità comiche dove è proprio il riproporre seriale di un cliché, di una struttura ironica sedimentata, a provocare il riso: «Se dovessimo descrivere la prima volta che abbiamo fatto sesso con un aggettivo, diremmo Rapido/Imbarazzante; se dovessimo descriverlo con il titolo di un film, diremmo Fast and furious / Fuori in 60 secondi, se dovessimo descriverlo con il titolo di un testo teatrale, diremmo L’opera da tre soldi / Molto rumore per nulla».

Questa programmaticità si incarna anche nell’esposizione “statistica” delle storie dei protagonisti – «siamo al 33% donne e al 66% uomini, al 100% eterosessuali» – che suggerisce una dimensione universale delle storie che vengono raccontate in scena, che spesso si muovono su luoghi “comuni” nel senso letterale del termine, dove il pubblico viene accolto e incluso, in un certo senso, nella narrazione: l’illusoria necessità dell’altro per stare bene con se stessi, la rassegnazione che induce a non parlarsi pur di evitare il confronto, il «finché rimango innamorato di lei posso evitare di innamorarmi di qualcun altro». E se è vero che dalla platea ci ritroviamo inevitabilmente descritti da questo tentativo sempre frustrato di modificare i propri comportamenti, l’utilizzo mai variato di stereotipi ben noti e di meccanismi comici eternamente ripetuti produce una zona di comfort che rischia di non mettere mai in discussione le idee di partenza dello spettatore.
L’ostinazione nel non rompere gli schemi accontenta lo spettatore coinvolgendolo solo in parte, senza riuscire a toccare realmente le sue corde – poco funzionale in questo senso anche l’utilizzo della musica, che si limita all’accostamento un po’ didascalico e poco organico di un brano a ognuna delle tre età portate in scena.
L’interessante lavoro di generalizzazione svolto dai sei autori del testo rischia quindi di far avvertire una distanza eccessiva e restituisce talvolta la sensazione di un esercizio di stile che, per quanto non asettico e ben recitato, nasconde sotto il tappeto della risata la polvere di quell’intimità fragile che invece vorrebbe mostrare.

 

Irene Buselli

Visto al Teatro Sociale di Gualtieri il 20.07.2018