Ciò che resta nel buio (Otello) | Intervista DU30

Ciò che resta nel buio (Otello)
della compagnia Gilda Antistanti

Lo spettacolo Ciò che resta nel buio (Otello) è presentato dalla compagnia GILDA ANTISTANTI, nata nel marzo 2015 e composta da Giancarlo Fares, Viviana Simone, Alessandra Allegrini, Vittoria Galli, Francesca Lozito, Serena Magazzeni, Davide Mattei, giovani attori con sede lavorativa a Roma.

Rispondono alle domande Giancarlo Fares e Viviana Simone.

Da dove siete partiti come idea per costruire lo spettacolo Ciò che resta nel buio (Otello), e come si inserisce il personaggio di Otello, emblema della violenza nei confronti delle donne?

Tutto è partito dalla volontà di lavorare sul tema del femminicidio e di continuare una ricerca che avevamo iniziato sul buio come ‘fatto materico’. Non volevamo utilizzare una illuminotecnica consueta e abbiamo scelto di lavorare con le torce. Siamo un gruppo proveniente da una Accademia teatrale che si chiama ‘Euteca’, io ci insegno e quando i ragazzi si sono diplomati abbiamo deciso di fondare la compagnia Gilda Antistanti e continuare il percorso insieme. All’inizio è stato difficile perché dovevamo trovare delle forme per sviluppare il tema del femminicidio, poi gradualmente lavorare sul tema stesso ci ha portati a trovare una interazione corretta tra immagine, parola e musica. L’Otello non è arrivato casualmente; l’intenzione era quella di approfondire il tema buio/luce oltre che il tema del femminicidio, già presente nel testo di Shakespeare. Le due cose poi si sono fuse.

Nello spettacolo è presente una simbologia molto forte, un elemento ricorrente è l’acqua.

Il mare è una componente ineludubile dell’Otello, ad esempio ho in mente la versione di Nekrosius. L’acqua è un elemento di per sè legato all’universo femminile per quello volevamo fosse presente nello spettacolo.

Ancora sulla simbologia, sono ricorrenti i colori rosso e nero non solo negli abiti ma anche nei volti.

La base del lavoro parte dalla clownerie perché è una disciplina volta a restituire ironia e leggerezza. Partendo dal trucco base del clown ci siamo trovati con questo risultato: i colori diventavano i segni delle percosse che le donne ricevono.

L’ironia, che peso e che ruolo ha all’interno di Ciò che resta nel buio (Otello)?

È fondamentale. Ci abbiamo lavorato mesi! È importante riuscire a mettere in scena un tema denso e pesante come il femminicidio in modo tale che il pubblico riesca ad accettarlo e non rifiutarlo. Era per noi quindi necessario trovare la chiave ironica. Secondo noi non può esserci tragedia senza ironia, per cui una vera tragedia è in realtà tragicomica. Tutto quello che noi produciamo da un punto di vista di teatro sociale lo bilanciamo con una parte di leggerezza. Una comunicazione valida permette al pubblico di entrare nella ‘dinamica del gioco’: attraverso il gioco si può parlare di qualsiasi cosa, anche la più tragica. Se non è presente questa dinamica, il dolore diventa qualcosa che si rifiuta. Il pubblico va rispettato nella sua soggettività e bisogna farlo stare dentro situazioni dove si parli di cose importanti ma senza spaventarlo. Nekrosius – che ho citato prima – è uno straordinario regista e, nonostante i suoi spettacoli siano lunghissimi, attraverso l’ironia, il gioco, le immagini e la musica, riesce a farti entrare dentro un concetto forte senza intimorire o annoiare.

Su quali materiali avete lavorato oltre all’Otello di Shakespeare per costruire lo spettacolo?

La scrittura è di gruppo, poi abbiamo inserito parti tratte da Il Cantico dei Cantici e poi materiale di vario genere. Ogni attrice ha scritto una testimonianza dopo essersi documentata, infine abbiamo inserito canzoni che rimandano al repertorio popolare come un canto salentino, un canto lucano, una ninna nanna islandese.

Come lavorate come gruppo? Da cosa partite per costruire i vostri spettacoli?

Uno dei registi che ci ispira è Gabriele Vacis. Lui è un punto di riferimento con i suoi spettacoli Romeo e Giulietta, Le smanie della villeggiatura, Affinità elettive… poi il teatro di narrazione, con Marco Paolini, e siamo inoltre molto vicini ad Eugenio Barba. Uniamo una serie di metodiche che sembrano distanti tra loro ma che poi non lo sono. Il nostro è lavoro d’improvvisazione, interagisce con la musica e col movimento, alcuni di noi fanno commedia dell’arte. L’improvvisazione è per noi farsi sorprendere e cercare drammaturgie non solo lineari. Questo è l’insegnamento Barbiano: se la drammaturgia è lineare è prevedibile. Ciò che resta nel buio è costruito in maniera talmente imprevedibile al punto che poi diventa interpretazione soggettiva.
Il lavoro finale è quasi un montaggio cinematografico. Hai i materiali e devi trovarci una logica.
Ognuno di noi propone frammenti, intuizioni, che poi si compongono e diventano una cosa unica. Lavoriamo a strati che si sommano di volta in volta. L’idea è di trovare un teatro contemporaneo di coesione, di gruppo, di sinergia, di volontà di raggiungere obiettivi comuni che poi rispecchiano una visione personale ma anche una necessità della società.

 

L’intervista è a cura di Valentina Dall’Ara e Clizia Riva.