Long-Form: “Frammenti di un Io generazionale”

Prologo 

Se è vero che non si giudica mai un libro dalla copertina, è innegabile la sua potenza  immaginifica e il carattere intrigante che tanto attrae il nostro sguardo sugli scaffali. Una delle prime immagini con cui le spettatrici e gli spettatori della nona edizione di Direction Under 30 si confrontano, è proprio un collage di immagini e parole che la pluralità di sguardi e mani del coordinamento Under 30 (Sara Barbieri, Beatrice Bolsi, Silvia Casola, Riccardo Marin, Emma Pellizza) ha realizzato per la locandina del festival.  Occhi, fiamme, piedi, granchi, onde, nuvole e parole si intrecciano disponendosi sulla carta a formare un quadro multimaterico dai caratteri pop.

Immagini singole che contengono in nuce già un significato ma che, giustapposte in un montaggio, assumono inevitabilmente un valore ulteriore dato dalla loro prossimità. In un costante dialogo tra frammento e visione d’insieme, il collage diviene per noi metafora ideale di una parcellizzazione che abbiamo individuato nel panorama contemporaneo teatrale italiano, specialmente in quella generazione under 30 che sembra faticare a  riconoscersi. Una frammentazione che si può ravvisare nell’inchiesta Chi l’ha vista? curata da  Altre Velocità, ma con cui abbiamo potuto confrontarci già dalle prime video-interviste giornaliere alle compagnie presenti all’interno di Direction Under 30. L’ultima domanda che abbiamo posto loro, infatti,  chiedeva  una riflessione  sulla propria generazione e un’indiscrezione sulle  prospettive future. Molti hanno tentennato di fronte alla prima richiesta e si sono concentrati principalmente sui meccanismi produttivi e molto meno su  quelli creativi, elogiando la prosperità dei bandi destinati agli under 30 e la possibilità di fare rete che questi rendono possibile. 

«Penso non si possa parlare di scena, forse sarebbe più giusto parlare di scene» racconta Niccolò Matcovich della compagnia Nardinocchi/Matcovich,  a Direction  con  Arturo. «Se negli anni, decenni e secoli scorsi siamo stati abituati a vedere una scena teatrale più compatta, oggi siamo in un tempo in cui regna la frammentazione di linguaggi, di poetiche, di direzioni e questo è anche una ricchezza.» 

Come nota Maddalena Giovannelli – tra le fondatrici della storica rivista Stratagemmi-Prospettive Teatrali –  si tratta probabilmente di una generazione che riesce a ricorrere al “noi” all’interno di un quadro politico, ma che fatica a identificarlo a livello artistico. 

Prime osservazioni

Di fronte a questo dileguarsi di una collettività, è stato quasi inevitabile il generarsi di una sorta di doping dell’io, come descrive il sociologo Stefano Laffi nella pubblicazione Itinerari nel Presente Indicativo curata da Stratagemmi per l’omonimo  festival organizzato dal  Piccolo Teatro di Milano. Ci rimbomba in testa una domanda: da dove partire per la ricerca di “un centro di gravità permanente”, se non da se stessi? Ricorrere all’individualismo, quindi, può non essere puro narcisismo, ma diventare espediente per riconoscere la forma del proprio frammento. Se all’interno di un collage, il singolo ritaglio può avere un significato ambivalente ed essere interpretato sia come isola sia come parte di un arcipelago più grande, a questa parcellizzazione della generazione under 30 corrisponderebbe un’ulteriore frammentazione, quella di un io che, da tempo non più rappresentato come granitico, trova nei racconti in prima persona il mezzo prediletto per rivelare tutta la sua fragilità.

In tal senso, un altro dato che è balzato ai nostri occhi è stata la forte presenza di una tendenza autobiografica nel panorama festivaliero e cartellonistico teatrale italiano, una tendenza che sembra abbracciare il teatro contemporaneo senza distinzioni generazionali. Guardando più specificamente a Direction Under 30, un filo rosso di autofiction sembra legare tutti gli spettacoli in programma. Una forte matrice biografica ha animato in particolare la prima serata festival: ruotano intorno al tema del padre sia Partschótt sia Arturo, pur assumendo registri totalmente differenti: l’uno dialoga con l’eredità di un archivio personale, l’altro basa la propria drammaturgia sulla partecipazione attiva del pubblico. 

Ampliando invece lo sguardo verso il fuori, possiamo guardare, a titolo d’esempio, al programma di Santarcangelo, dove autobiografia, corpo e rappresentazione si fondono in modi indissolubili (in spettacoli come Go Go Othello di Ntando Cele e O Samba do Crioulo Doido di Luiz de Abreu e Calixto Neto che intendono decostruire gli stereotipi legati alla rappresentazione del corpo nero; o ancora in Love me di Marina Otero e Martín Flores Cárdenas e SCORES THAT SHAPED OUR FRIENDSHIP di Lucy Wilke e Pawel Duduś che indagano, invece, una costruzione relazionale dell’identità);  oppure a quello  della Biennale Teatro 2022, la seconda  diretta da  Ricci/Forte. In particolare, il vincitore del Leone d’argento Samira Elagoz ha portato in scena Seek Bromance, in cui il performer attraverso un video di quattro ore narra la sua transizione di genere. «Uno spettacolo perfettamente iscritto nei suoi tempi», dice Giovannelli. «La mediazione sembra quasi ridotta ai minimi termini, la sensazione che si avverte è di poco lontana da quella che avvertiamo scrollando il suo profilo social».

Affinità e divergenze

«Va detto che quello dell’autobiografismo è un  trend ciclico, che ha visto il suo intensificarsi negli ultimi 20 anni» ci rivela Lorenzo Donati, giornalista e assegnista di ricerca all’Università di Bologna, tra i fondatori  di Altre Velocità. Seguendo tale criterio ci segnala Teatro da mangiare?, un evento per trenta commensali, che, proprio a inizio millennio, metteva in scena l’autobiografia della compagnia Teatro delle Ariette e la loro scelta di abbandonare il campo teatrale a favore di un’azienda agricola; oppure a MDLSX del 2015, in cui i registi Enrico Casagrande e Daniela Nicolò giocano sull’auto-finzione e sul mascherare l’identità del personaggio, impegnato in un processo di transizione, con quella di Silvia Calderoni, nota attivista, oltre che performer, del movimento LGBTQIA+.

Nello specifico, si potrebbe notare un graduale spostamento dal sottofilone del reality trend a quello dell’autofiction, una tecnica teatrale che denota la volontà di parlare di qualcosa che si conosce profondamente, talvolta anche della difficoltà di raccontare le alterità. Un fattore che sicuramente ha inciso nello sviluppo di questa inclinazione drammaturgica è stata l’esigenza contemporanea di sradicare nelle arti l’appropriazione culturale, decostruirla.

Sembra che le domande poste dagli artisti nell’approccio a una nuova creazione riguardino sempre più la propria prospettiva, manifestando un’inadeguatezza o uno scarso interesse verso la rappresentazione di qualcosa esterno da sé. Questi sono anni in cui la rappresentazione ha cercato di affrancarsi nettamente dal concetto di rappresentanza. Bisogna però considerare che nel panorama teatrale italiano coesistono tendenze tra loro molto differenti ed è stato registrato, come ci fa notare Giovannelli, anche un  ritorno a stilemi narrativi e registici più tradizionali – manifesti nei lavori di Leonardo Lidi, Fabio Condemi e Giovanni Ortoleva, tra gli altri.

Ritornando allo scenario della Bassa, abbiamo provato a chiedere alle compagnie in scena nella prima serata del festival da dove nascesse la propria esigenza di raccontare l’io in scena. Nel dialogo con il gruppo  di Partschótt, sono emerse risposte differenti. Da un lato, il  parlare di sé in prima persona sembra essere, per Andrea Dante Benazzo, un espediente rassicurante, quasi un rifugio, mancando la possibilità di un’identificazione nelle rappresentazioni che consegna la società. L’autobiografia diventa quindi un mezzo che permette di amplificare e allo stesso tempo rifiutare l’io. D’altra parte, Mattia Colucci ha affermato che l’esigenza dell’autobiografismo sembra emergere da una maggiore consapevolezza delle sfaccettature dell’io, da una qualità prismatica del sé che si riconosce come tale e non può né vuole più confinarsi in categorie specifiche. 

Arturo di Nardinocchi/Matcovich si apre con quella che è una vera e propria dichiarazione d’intenti. Il duo abbruzzese-laziale ha infatti voluto far precedere l’inizio del vero e proprio spettacolo  dall’elaborazione di un patto di fedeltà con lo spettatore: «Tutto ciò che raccontiamo è vero, sono i nostri ricordi che vorremmo che si intrecciassero con i vostri.»  Neppure loro avevano pensato a priori di lavorare su un materiale biografico, ma sentivano il bisogno di tornare al cuore del teatro, un cuore che hanno rintracciato nel tentativo di creare un’empatia e un legame emotivo con il pubblico. Di fronte a questa esigenza hanno intuito che partire dal personale potesse essere per loro la chiave per arrivare a un universale: è mettendo in campo i ricordi, le date, le posture, gli atti di tenerezza e le idiosincrasie dei loro padri che ognuno avrebbe potuto trovare qualcosa del proprio. Dal dialogo che abbiamo avuto con Laura e Niccolò emerge che questa scelta di svelare e svelarsi completamente – «Io non sono un attore, io non sono un’attrice»  sono le prime parole della drammaturgia di Arturo – sia un’esigenza di onestà che abita i due registi, legata a un rispetto che provano verso la figura dello spettatore, e non una dichiarazione meramente strumentale alla creazione di un rapporto con lo stesso.

Conclusioni

Se l’intenzione iniziale era quella di portare in superficie una sotterranea connessione tra questa frammentazione della scena contemporanea under 30 e il forte autobiografismo che domina le drammaturgie della scena contemporanea teatrale, a  indirizzare  i nostri impeti sono state alcune voci della critica teatrale, qui intervistata nelle persone di Lorenzo Donati e Maddalena Giovannelli. Per entrambi, il secondo dato non è particolarmente generazionale né unicamente legato  al solo mondo teatrale, bensì una tendenza che andrebbe indagata in maniera più ampia dal punto di vista sociologico e che arriva al teatro solo dopo un grande sviluppo in ambito letterario. Non potendo dilungarci ulteriormente in questa analisi  e ampliare la nostra prospettiva, ci vediamo qui costrette a una resa, nella speranza di aver suscitato in voi curiosità con questo tentativo di  ragionare su organicità e frammentazione di scena e linguaggi teatrali, a partire dagli incastri imperfetti tra un frammento e l’altro. Se non è la crisi della collettività e l’impossibilità di autoriconoscersi come generazione, rimane aperto il dubbio di quale sia l’origine  della  dilagante sfiducia nei confronti dell’efficacia di un meccanismo scenico e narrativo che permetta di attraversare questioni che vadano oltre il puro dato biografico.

 

a cura di Eva Olcese e Marcella Pagliarulo

con il supporto teorico di Maddalena Giovannelli e Lorenzo Donatià

e sulla base di alcune interviste con le compagnie finaliste di Direction Under 30