Recensione “Calcinacci – Una liturgia privata e allucinata”

Una liturgia privata e allucinata si avvicenda nel perimetro claustrofobico di un cantiere, impresso nella calura afosa di luglio a mezzogiorno. E la temperatura incandescente suggerita dalla scenografia così materica e tangibile contribuisce a connotare quell’atmosfera rarefatta e sospesa, di bruschi passaggi di pressione in filigrana, come braci che brulicano e scricchiolano inosservate, presentimento di un incendio a cielo aperto.
Claudio Larena con Calcinacci porta in scena per la nona edizione del festival Direction Under 30 
l’assolo turbolento di un operaio inquieto, capace di incarnare la relazione antitetica di cura – conflitto, di attrazione e di repulsione, di riflesso e di opacità con un muro marmoreo, che campeggia in tutta la sua ostile presenza muta.

L’impianto scenico scarno riflette l’essenzialità strutturale del conflitto titanico rappresentato: un operaio, i suoi materiali da lavoro, un muro da levigare. La dimensione artigianale e volatile degli elementi scenici – i sacchi di calcinacci che costeggiano la scena, la polvere sollevata nel processo di lavorazione della calce – custodiscono funesti presagi di progressivo sfaldamento, disgregazione e crolli inevitabili, generando sperati scenari apocalittici di distruzione, di case in rovina.

Tutto è attraversato in sottotraccia da visioni, da premonizioni racchiuse negli strumenti di lavoro che si trasformano in dispositivi magici, utili ad allestire un rituale a metà strada tra delirio bacchico e discesa negli inferi personali, con l’intento di riappropriarsi di uno spazio di liberazione, di guadagnarsi il tempo di una catarsi, di un “perdono”. Osservando la concitazione concentrata dell’operaio, colto in scatti nervosi ed elettrici, emerge l’ambivalenza combattuta del lavoro alienato a cui assistiamo, seguendo affannosamente un corpo completamente polarizzato tra la dedizione adorante e l’avversione distruttiva verso il muro alle sue spalle.

La dimensione sonora del gesto reiterato stabilisce una precisa partitura musicale, tutta giocata sull’interazione automatica ma lucida con gli attrezzi, accarezzandoli, sfregandoli, scartavetrando con meticolosa veemenza. Il movimento si fa linguaggio drammaturgico autentico, capace di neutralizzare la necessità della parola. Il senso di scollamento, di sradicamento è percepibile dalla concentrazione turbata con cui l’operaio si allarga nello spazio, con cui carteggia e prepara le lame da intaglio: sul fondale del suo sguardo è ravvisabile un tremore che lo discosta dal qui e ora, proiettandolo in un altrove agognato e futuribile. Tuttavia l’ossessiva routine del lavoro, unica legenda conosciuta per decodificare il mondo e tentare di decostruirlo, si configura come danza apotropaica, come cerchio liturgico protetto in grado di tutelare l’operaio dal rischio di prendere consapevolezza dei propri demoni, del vuoto siderale dentro e fuori di sé. Una danza problematica e ambivalente, che presenta qualcosa da dover gestire. 
Il corpo in scena, testamentario di una resa esistenziale, si articola recuperando la gestualità organica, manifatturiera e artigianale del manovale-scultore, la frenesia scalpitante di uno slancio che non ha abbastanza audacia per smarginare, la sinuosità muscolare di un corpo portatore di storie, ma incapace a raccontarle e portarle fuori da sé. Un meccanismo oliato, equipaggiato ma tuttavia colto nell’imprevedibilità del guasto; un dispositivo ammutolito, sorpreso a esitare nel momento di esporsi, dichiararsi, spiegare la semplicità costretta e spesso patita.

Risemantizzando il cantiere come luogo dell’affondo e dell’introspezione, la costanza dell’operaio precipita nell’esercizio mnemonico, in un tentativo tormentato di aderire ai gesti meccanici del lavoro, tanto da sprofondare nella loro fitta trama per poi cercare di smarcarsi violentemente dalla campitura, dal raggio di azione che questi definiscono sulla parete. Il tempo del lavoro, quello a cui assistiamo come pubblico, si trasforma in spazio- pretesto per un soliloquio murato, disturbato da continue perturbazioni emotive, interrogando quell’amara sovrapposizione tra la dimensione del desiderio, delle ambizioni, del riconoscimento sociale e quella del proprio impiego lavorativo. Quanto i confini del lavoro, precarizzato, sfruttato e malpagato riescono a determinare le nostre relazioni sociali? Quanto coincidiamo con la versione di noi stessi sotto sforzo, indaffarati a sopravvivere al marasma cibernetico e accelerato di un lavoro che non ci rappresenta?

Quello a cui partecipiamo è un sortilegio allo stesso tempo subito e innescato a cui soggiace una profonda tensione identitaria, tutta combattuta entro i profili di un muro riconcettualizzato come luogo del conflitto e delle velleità represse, delle contraddizioni e della dipendenza (economica, sociale, identitaria), capace di visibilizzare i fallimentari tentativi di evasione, di distanziamento rispetto a logiche precostituite opprimenti. Tutte strategie di insurrezione castrate da quell’inesorabile effetto elastico-rimbalzo che il perimetro asfissiante della parete esercita su un corpo irrequieto e disarmato, annientato dalla litania operaia che anima i suoi movimenti.

Trascendendo il portato storico-politico della figura dell’operaio e le possibili istanze di lotta della classe lavoratrice, Larena ci restituisce il ritratto di una soggettività marginale e in declino, dalle volizioni incancrenite dalle retoriche produttive e solipsistiche della nostra generazione. Malgrado il corpo provi a porsi in senso antagonista rispetto al reale, a inceppare le briglie sistemiche, tutto viene ridimensionato ad un boato cavo, a circoscritte esplosioni intermittenti, incapaci di abbracciare l’ardore della ribellione, di sfondare il muro. Assistiamo ad una sincera quanto paralizzante ammissione di debolezza dei nostri tempi, incorporata da un profilo senza nome, scontornato dal senso di abbandono e dalla mancanza di radici. 
Infiammato dagli ultimi bagliori epifanici, l’operaio sembra intravedere un’unica possibilità di abbattimento del muro: proiettarsi in una dimensione altra, in cui poter dar sfogo al risentimento viscerale contro le ipocrite estetiche domestiche, le patetiche pretese di allinearsi a paradigmi di perfezione che contaminano le nostre esistenze di un mediocre grigio vaniglia. Solo nel sogno l’operaio può liberamente accanirsi contro il corpo del reato, cioè un muro che si vuole fatiscente, sporco, in erosione irrefrenabile.

Solo auspicando lo sgretolamento della materia, il crollo definitivo di ogni impalcatura, si può rintracciare la maglia nella rete, lo spiraglio benedetto al di là del quale è possibile riallacciarsi agli affetti dimenticati, percepiti come alieni e incomunicabili. 
Ma anche i sogni sono friabili, invertebrati destinati a polverizzarsi: non resta che aggirare il muro, rintanarsi nella sua concavità e abbozzare un ultimo vano tentativo di trapasso.

Ivana Damiano