Recensione “Suck My Iperuranio o my Iperuranio sucks?”

L’acqua mi fa un po’ male
La birra mi gonfia un po’
Vado avanti tristemente a champagne e bon-bon
Ahi Maria mi manca il tuo amor

Rino Gaetano, Ahi Maria, “Resta vile maschio, dove vai?”

 

In che modo fronteggiare un grosso cambiamento individuale come l’abbandono della persona amata e, in un certo senso, di un’idea? Come farebbe uno stand-up comedian se ce lo immaginassimo con le paturnie dell’amore: uscire per un momento dal proprio narcisismo guardandosi da fuori e scherzandoci su.

Suck my Iperuranio di e con Giovanni Onorato è uno dei sei spettacoli finalisti della nona edizione di Direction Under 30, andato in scena il 23 luglio a Gualtieri. Il regista e “attore solo”, porta in scena una piéce che molto deve alla stand-up comedy ma che, per l’entrata e uscita di scena di persona e personaggio, a metà tra umorismo e disperazione, si avvicina più spontaneamente alla stand-up poetry – come riferisce l’autore stesso.

Il suo arrivo in scena, com’è tipico della stand-up, rompe da subito la quarta parete dal di fuori utilizzando la stessa porta dalla quale è appena entrato il pubblico. Sul “non-palco” del Teatro Sociale Gualtieri una luce calda, quasi intima, si diffonde in uno spazio vuoto, a eccezione di una poltrona bianca sulla quale l’attore poggia dei jeans e di fianco alla quale ripone le scarpe.

Il comico sale sul palcoscenico in camicia, boxer, lunghe e bucate calze a righe: comico al quadrato. Maria, la sua ex di lunga data, l’ha lasciato in mutande. Senza di lei, la persona dietro la “maschera nuda” del comico sta attraversando quella fase, comune a molti, di rottura di una relazione: trascuramento del sé, atteggiamento depressivo misto a picchi di narcisismo e pensieri ricorrenti che facilmente sfociano nell’ossessione.

La non-reazione iniziale è sopravvivere, così si trascina al supermercato per la fame comprando, senza alcun criterio, cose che gli passano per la testa in quel momento: i plumcake, la carta igienica. «Non è la dieta mediterranea, è il capitalismo che sessualizza il glucosio»: l’illusorio bisogno di mangiare zuccheri per sopperire alla mancanza d’affetto e ritrovarsi con quella pancetta da mal d’amore.

Intento a voler ripassare degli sketch per uno spettacolo, Giovanni non riesce a concentrarsi poiché lo pervade quel costante senso di abbandono e nostalgia. Maria, o meglio il suo andare via, gli ha castrato le convinzioni che riducono la sua persona a una vocina comica. Nel parlare della loro relazione, guarda in alto e al tempo alterna pensieri smielati al ricordo del tradimento, oscillando tra sacro e profano, tra quello che per Platone era l’Iperuranio, il mondo delle idee, e il mondo concreto, definito apparente.

«La realtà è una crepa dalla quale esce luce» dichiara l’attore, ma questa è tutt’altro che razionale: «il bene è l’atto più violento». Quella luce può trasformare in oro anche un rottame arrugginito, un po’ come fa l’amore nel cristallizzare la persona che si ama.

Infranta l’idea di eternità di cui si connota l’amore quando si è innamorati, di Maria non rimangono che le mani. In esse tutto perde di senso, di convenzione: i soldi diventano foglietti, i genitali di lui diventano sassi e non più sesso.

Le ferite d’amore sono luce nelle crepe, portano a uscire di casa, dal proprio narcisismo, per guardarsi da fuori, ma vengono distorte da quegli ancora presenti abbagli dell’idealizzazione. Pare proprio l’essere comico a salvare e condannare Giovanni quando qualcosa dentro si rompe: la recitazione pare, paradossalmente, mascherarlo quando è fuori dalla scena e spogliarlo quando entra nel personaggio.

Il comico rivendica le sue posizioni al pubblico, ma allo stesso tempo dichiara che le sue sole idee, chiudendosi in loro stesse, si sottraggono al confronto con la realtà.

Il tentativo di portare a teatro la stand-up comedy, dotandola di una drammaturgia che indaga la posizione di persona e personaggio nel loro alternarsi e condensarsi, risulta non solo accattivante, ma rende anche il pubblico ben disposto per una replica. Tuttavia la piega introspettiva che assume lo spettacolo, in tal senso, porterebbe, quasi naturalmente, a considerarlo più un momento di stand-up poetry, cioè uno spettacolo di poesia performativa molto vicino al teatro, in cui il concatenarsi di testi brevi e intensi permettono momenti di immedesimazione tra performer e pubblico. In Suck my Iperuranio è molto presente infatti un discorso frammentato per immagini che ricorda la poesia; essendo, inoltre molto intimistico, si comprende chiaramente la posizione del personaggio in scena e non è particolarmente presente quell’ambiguità che sa indignare oltre che divertire, onnipresente nella stand-up comedy. Indubbio è il fatto che, al di là delle categorie, quello di Giovanni Onorato rappresenta un accattivante compromesso nel portare lo stand-up a teatro.

Giulia Damiano