Recensione: “La difficile ricerca di un metodo anti-ruggine”

«Carissimo padre, di recente mi hai domandato perché mai sostengo di avere paura di te. Come al solito, non ho saputo risponderti niente, in parte proprio per la paura che ho di te, in parte perché questa paura si fonda su una quantità tale di dettagli che parlando non saprei coordinarli neppure passabilmente».

Con queste parole Franz Kafka inizia la sua lacerante e dolorosa Lettera al padre ed è da questo punto che Pater Noster, spettacolo della Compagnia Collettivo Est (nata a Roma nel 2019), sembra prendere avvio: una ricerca di dettagli che diano forma alla terrorizzante relazione con la figura genitoriale e l’incapacità, per dirla con Freud, di uccidere i padri.

La drammaturgia, scritta da Beatrice Mitruccio, poggia su un equilibrio ben calibrato, accompagnando l’evoluzione del rapporto fra i due fratelli e seguendo un ritmo ben scandito, quasi quello di una fiaba di Propp: da una difficoltà (un rapporto familiare difficile) i due protagonisti devono affrontare una peripezia (ricucire la loro problematica relazione) per infine arrivare a uno scioglimento (la risoluzione del loro dissidio, riconoscendo le fragilità l’uno dell’altro).

La storia di Pater Noster si avventura dunque all’interno di un sentiero scivoloso, senza però prendersi il rischio di addentrarsi nei meandri più scomodi dell’argomento trattato. La difficile relazione con la paternità, infatti, è un campo di battaglia che spaventa, soprattutto quando a parlarne sono i successori – come i protagonisti dello spettacolo – che ci mostrano come in una réclame un po’ patinata, i due modelli risolutivi: da un lato “il legato” (Paolo V. Perrone) che ha deciso di restare; dall’altro “il viandante” (Ludovico Cinalli) che, terrorizzato dal rischio di arruginirsi a rimanere nei luoghi della sua infanzia, sceglie di fuggire per trovare se stesso. Ciò che lo spettacolo ci racconta è dunque il gigantesco elefante nella stanza con cui la generazione in procinto di avvicinarsi ai trent’anni non può fare a meno di convivere: la presenza ingombrante di una figura genitoriale da cui sembra quasi impossibile distaccarsi.

Fra i momenti più suggestivi dello spettacolo non si può non citare la scena che vede i protagonisti seduti parallelamente di fronte al pubblico, intenti ad urlare le proprie ragioni, sovrapponendosi vocalmente come in un’armonia calibrata nella sua dissonanza, in cui le uniche espressioni distinguibili sono «io sono», «tu sei». I due fratelli si accavallano, si incrociano e si scontrano, si scambiano anche, attraverso l’espediente del travestimento, cercando la chiave di volta di questo rompicapo. È proprio questo principio di definizione non completata a rendere spesso faticosa la fruizione dello spettacolo: i personaggi sembrano rimanere nella loro dimensione tipizzata, intrisa di un volutamente ingombrante machismo tossico che impedisce una manifestazione sana di affetto fraterno. I caratteri in scena non si prendono il rischio di diventare individui specifici e delineare così una storia che nella sua specificità racconti l’universalità delle relazioni familiari.

«Tutte le famiglie sono uguali, ma ognuna è infelice a modo suo», recita uno degli incipit più celebri della storia della letteratura, quello di Anna Karenina di Tolstoj, più che mai pertinente in questo caso. Nonostante la famiglia descritta nello spettacolo non sia necessariamente infelice, la sua storia annega in un mare magnum di immagini prototipiche, vere e proprie armi a doppio taglio che corrono il rischio di inciampare in un indorato quadretto, fin troppo fiabesco, delle relazioni fra fratelli.

In questi termini, Pater Noster diventa allora anche una scommessa: la storia dei due fratelli opposti reitera l’ambizioso tentativo da parte della compagnia di raccontare uno fra i più divisivi drammi di chi si affaccia all’età adulta, che non riguarda solo il rapporto con i padri, ma anche la difficoltà di confessare il desiderio di staccarsi dall’ombra dei genitori. I due attori in scena vestono con semplicità riuscita i due personaggi, regalando una eccellente performance fisica, in cui riproducono in maniera esatta e specifica la serietà estrema che il gioco ha nel rapporto fra fratelli: lo fanno scambiandosi i vestiti del padre defunto, in particolare la “maglietta delle partite del padre”, quella con il numero di Cannavaro, che diventa un’icona epifanica del loro rapporto. L’interpretazione è personale e spoglia, cristallizzata nel suo modello, a rischio di diventare auto-descrizione del personaggio stesso. Dei protagonisti, infatti, sappiamo della claustrofobica quotidianità di Mimmo che non ha abbandonato casa e della ribellione romantica di Alberto, sovrastrutture che impediscono di mostrarci davvero chi sono questi due ragazzi; eppure sono proprio lì, con i loro jeans strappati, i boxer oversize e gli sguardi sinceri.

Yoshi Oida, fedele collaboratore del regista Peter Brook, nel suo celebre libro L’attore fluttuante, parla di un esercizio da sottoporre durante le prove in cui ognuno batte le mani senza un ritmo predefinito, determinando alla fine dell’esercizio l’omogeneità ritmica del gruppo. La sfida a cui Pater Noster invita il pubblico pare simile a quella di Oida: la ricerca di un ritmo emotivo comune che parta da un racconto generazionale, accettando il rischio dietro l’angolo di creare un ritornello già fin troppo reiterato.

Mila Di Giulio

 Visto al Teatro Sociale di Gualtieri il 25.07.2021