Recensione: “Le affannose sperimentazioni di Victor&Frankenstein”

La sofferenza causata da un forzato isolamento, la ricerca di un contatto con l’altro e il bisogno  di raccontare il proprio vissuto sono elementi personali e sociali che abbiamo visto emergere in diverse forme durante l’ultimo anno e mezzo. Pur evitando riferimenti scoperti alla situazione attuale, la compagnia milanese Oderstrasse li fa emergere e risuonare in Victor&Frankenstein (regia di Cornelia Miceli e Marco Ciccullo) spettacolo ispirato al noto romanzo di Mary Shelley, in scena in occasione di Direction Under30 di quest’anno.

A dominare il palcoscenico dall’inizio alla fine, sono tre figure dalle fattezze umane: dietro a pannelli semoventi di plastica semitrasparente si intravedono i loro corpi fasciati da un tessuto aderente rosa carne, mentre con pesanti anfibi calcano rumorosamente lo spazio; le loro posture deformi, le movenze incerte e le voci strascicate rimandano all’immaginario del malato, del reietto e del mostruoso. A quanto emerge dal foglio di sala, gli attori (Marco Ciccullo, Enrico Ravano e Edoardo Rivoira) impersonano tre esperimenti giovanili del dottor Frankenstein che, imprigionati ai confini del mondo, raccontano indefessamente le vicende del loro defunto creatore e riflettono sulla propria condizione, funestata dalla solitudine e dall’immortalità. Gli interpreti in scena, infatti – mediante la parola, una partitura corporea e la movimentazione dei pannelli –  ripercorrono la vita di Victor Frankenstein, dai suoi precoci studi alchemici, passando per il rapporto con genitori e professori, la realizzazione della sua creatura, l’amore per Elizabeth e la sua uccisione, fino ai propositi di vendetta e morte.

Il testo di Mary Shelley è utilizzato dalla compagnia come matrice da cui trarre quadri capaci di illustrare queste vicende tragiche e rocambolesche: attraverso continue interruzioni e sovrapposizioni, le voci degli attori, più che restituire un univoco flusso di senso, collaborano a evocare diverse immagini memoriali frammentate in cui, quasi senza soluzione di continuità, vengono impersonati i tre esseri, il giovane scienziato, sua moglie, la Creatura e altri personaggi ancora.

Se la scelta di spezzare un procedere discorsivo lineare per rappresentare i “lampi” immaginativi dei narratori può apparire come un interessante tentativo di sperimentazione, la sua realizzazione dà adito ad alcune incertezze. Il testo non sembra riuscire ad abbandonare il tono letterario e risulta, anche a causa della intenzionale frammentarietà, difficile da fruire. Inoltre, eccettuati gli interventi nelle battute iniziali in cui i corpi degli attori mutano sotto gli occhi dello spettatore per rappresentare i genitori del protagonista e i suoi professori, il ritmo performativo risulta piuttosto flebile e monotono: sebbene l’intento sia quello di rimandare all’agonia sofferta dai protagonisti, questa intensità disperatamente debole finisce per confondere lo spettatore, rendendogli in alcune occasioni impossibile determinare chi stia parlando e quale sia la situazione descritta.

Tuttavia, l’intuizione di affidare il punto di vista della narrazione alle tre creature ha il merito di spostare l’attenzione dalla deviazione dell’umanità operata da Frankenstein, verso l’umanità deviata rappresentata dai cadaveri redivivi. La riflessione si sgancia, almeno parzialmente, dal superbo altruismo dello scienziato e dalla messa in discussione dei principi scientisti per suggerire un parallelismo tra i “mostri” da lui generati e la specie umana a cui appartengono: nonostante tutto, la loro disperata solitudine, intervallata da invocazioni verso un generico “qualcun altro” con cui relazionarsi, non può fare a meno di smuovere la platea, anche solo per un attimo.

Matteo Valentini

 Visto al Teatro Sociale di Gualtieri il 24.07.2021