Della violenza che non ci salva. Belly Button di Crack24

E se l’ombelico fosse il buco nero della nostra storia individuale, l’abisso da cui scaturiscono gli eventi della nostra esistenza? Un nodo senza scampo, che ci accomuna sotto il segno della violenza e del trauma, che imprime una torsione nelle nostre parabole di figlie e figli, prima di noi e in modo irreversibile? È questa l’intuizione che dà nome e apre Belly Button della compagnia torinese Crack24, spettacolo/gioco per attori e spettatori social, tutti chiamati a fare i conti e a riscrivere insieme la vicenda famigliare della protagonista trentenne. Alla ricerca di una co-appartenenza a questa storia personale, lo spazio della finzione si sdoppia e infine collassa su sé stesso: alla scena minimalista, in cui pochi semplici oggetti chiedono al pubblico di evocare ambienti e situazioni sulla scorta della narrazione, si sovrappone lo spazio social della chat Whatsapp, un gruppo “Famiglia” in cui ogni spettatore esercita la propria scelta, interagendo con le domande per suggerire la direzione degli eventi.

Di questa giovane donna, interpretata da Agnese Mercati – sue anche ideazione e regia – il pubblico sceglierà il nome, così come orienterà azioni e reazioni dei personaggi nel corso delle stagioni: la madre, interpretata da Carola Rubino, amorevole e senza colpa, sacrificata sull’altare della famiglia, e il padre, impersonato da Elia Tapognani, inetto e presto fantasma di sé stesso, sopraffatto dall’alcol, dal lavoro e dalla malattia. Al fondo – come dichiara Mercati – il lavoro si rifà al ritratto di famiglia tratteggiato in Chi ha ucciso mio padre di Édouard Louis, conservando una vaga eco della violenza domestica e del rapporto filiale irrisolto, ma soprattutto adottandone la predominanza della dimensione testuale. Belly Button si regge dunque sulla forma dell’autonarrazione, sostenuta interamente dalla protagonista, e che diviene quasi dettato per gli altri personaggi, agiti dalle parole e spossessati delle proprie scelte.

In contrasto con questa gabbia deterministica si pongono, nelle intenzioni dello spettacolo, la volontà della figlia di scardinare il proprio destino, di ripercorrerne le pieghe e, forse anche solo per gioco, immaginarne microscopiche deviazioni, per saggiarne, con l’aiuto del pubblico, l’impatto sulla parabola famigliare e sulla propria identità. Questa ricerca, che sembra tendere a un atto finale di emancipazione, riverbera e va invece a sbattere proprio in quello spazio di libertà che viene negoziato e aperto agli spettatori: il desiderio di entrare in relazione e di ingaggiare attivamente chi sarebbe deputato ad ascoltare e osservare le vicende, se da un lato approda a una soluzione formale – l’uso della chat – molto vicina alle modalità di comunicazione e intrattenimento più pervasive della nostra epoca, dall’altra rischia di restare ingabbiata nella natura stessa di tale mezzo, a scapito della problematizzazione non solo dei personaggi e dei loro vissuti, che paiono privi di spessore e stereotipati, ma dei termini stessi di quel coinvolgimento del pubblico cui si ambisce.

Le scelte proposte, a posteriori risultano poco determinanti sullo sviluppo effettivo della storia e della stessa drammaturgia; elemento, questo, che da limite potrebbe invece non essere privo di potenziale: che cosa potrebbe succedere se il meccanismo della scelta denunciasse l’impossibilità di fatto di cambiare le cose? Come potrebbe riscrivere nei toni della tragedia l’intera vicenda? Quali sarebbero gli effetti di una forzatura del dispositivo di ingaggio, accelerandone le criticità intrinseche?

Il gioco della chat cattura l’attenzione, dilegua la noia, ma insinua anche una logica consumistica – delle relazioni, delle emozioni e delle narrazioni del vissuto proprio e altrui – non estranea al carosello dei reel e allo scroll da divano come modalità insieme bulimica e anestetizzante con cui alimentiamo il nostro personale catalogo dei sentimenti. La violenza intrinseca di tale dinamica di ingaggio resta un tema sotterraneo, opaco; così anche la ricerca della dimensione comunitaria del teatro – ovvero di una famiglia effimera che duri il tempo di uno spettacolo – rischia di finire in una pura giustapposizione aritmetica, lontana da uno sguardo collettivo e dalla effettiva costruzione di uno spazio di consenso.

La catarsi si riduce alla condivisione un po’ ingenua di una domanda intima, che chiama il pubblico a rispondere portando in scena un frammento del proprio rapporto col padre. Avviene un po’ a freddo, senza sfiorare il senso di vertigine che avrebbe potuto assalirci se, all’improvviso, fossimo stati smascherati nella spietatezza della verità: siamo complici distratti, consumatori superficiali di una vicenda umana, che prende forma grazie alla nostra adesione a un sistema predeterminato di scelte nel tempo di un tocco sullo schermo. Restiamo connessi, ma non siamo salvati.

Gianluca Poggi