Lasciateci danzare! Ototeman_what if di Galvan/Menestrina

Nei giorni trascorsi a Gualtieri durante il festival Direction Under 30, l’esercizio di responsabilità nella formulazione di un giudizio per l’assegnazione del premio ha sollecitato costantemente lo scontro e lo scambio. Una delle questioni più interessanti emerse nel corso di lunghe conversazioni spalla contro spalla è stato il valore del gusto rispetto a categorie più oggettive di lettura.

Dov’è e cos’è il gusto, e qual è il suo occhio? Il gusto può predeterminare l’occhio? Lo limita? Quanto è giusto che sia il solo gusto il termine per un’opinione? Che visione predomina rispetto le altre?

Nonostante queste siano questioni che muovono ragioni ai limiti dell’assolutizzazione nella misura in cui sono individuali, e quindi ci si orienta con una certa baldanzosa sicurezza, proprio l’ultimo giorno, a un culmine quasi raggiunto di sfinimento e sovrastimolazione, Ototeman_what if di Sofia Galvan e Stefania Menestrina mi ha sbattuta nella scomoda posizione di dover analizzare ogni mio sentire per poi doverne dubitare.

Al buio della platea, gli occhi hanno trovato dentro di me i posti più disparati, tra gli interstizi del cuore e dello stomaco, e forse ancora più nel profondo di un’intimità interessante solo per me, trascinati dall’indubbio fascino che ha abitato lo spazio della scena.

Le due danzatrici impongono immediatamente una solidità tecnica notevole, capace di articolare una costruzione di immagini, anche complesse, che simpatizza con l’impulsività dello spettatore, anzi la pungola.

Due individui sono scomposti e storditi davanti a un televisore che inibisce le loro azioni, lasciando spazio alla brutalità di una relazione che si manifesta in dinamiche di prevaricazione. I corpi in scivolamento al suolo si flettono all’unisono, subendo sovrapposizioni che vicendevolmente limitano la presenza; nelle forme assunte, le gambe predominano sul resto del corpo in potenti torsioni.

La condizione muta con l’apparire di una statuina in legno raffigurante un coniglio, un totem (da qui il titolo Ototeman_what if) che amplia lo spazio e le possibilità immaginative di presenza in esso. I due individui perdono qualunque tipo di connotazione e diventano essenze in balia di un senso di euforia continua, permeate da una caratterizzazione emotiva, anche vocale, infantile. Lo spazio scenico diventa spazio di gioco e sfogo.

Le essenze scoprono il piacere di conoscersi sia da singole entità (il divertimento tra i coriandoli) che da duo: quelle sovrapposizioni diventano incastri gioiosi, dove l’una trova armonia con l’altra senza mai sparire (notevole la costruzione di una massa unica dove ciò che è perso in una, come un braccio o una gamba, si ritrova in ciò che l’altra ha). Laddove ci si permette la possibilità di essere unico, quella stessa dirompente energia euforica può, di tanto in tanto, strappare via le aderenze, e allontanare le due essenze che si muovono all’unisono.

È evidente il divertimento con cui il gesto si compie, esattamente come è evidente la postura serena e festosa delle due brillanti danzatrici.

Potrei fermarmi qui, nel godimento di una dimostrazione tecnica abbagliante; avrei potuto lasciare i miei occhi fermi tra quegli interstizi, ma non si può ignorare che nei cinquanta minuti di performance si sia fatto largo una sensazione sottile di pesantezza davanti a un movimento puro che si reitera ma che non diventa mai azione. La presenza di quell’azione avrebbe soddisfatto l’aspettativa di trovare la ritualità (sottolineata anche dal totem) promessa: la ritualità, stando a una precisa definizione antropologica, è un costrutto che scandisce l’esperienza di una collettività e non si limita alla sola ripetizione assoluta di un momento (come è avvenuto in scena), bensì è il progredire, nel tempo dell’esecuzione, di un sentimento che esplode violentemente in direzione di qualcosa che unisce. Il momento in questo caso è invece solo uno e il parossismo non si raggiunge mai. Poiché manca una costruzione drammaturgica più solida, che costruisce l’azione non solo in virtù di un sentimento che si autoalimenta all’infinito, si rischia di reiterare un’autorappresentazione che esclude lo spettatore, e per paradosso ci si sente soli nel mezzo della splendida festa.

Valentina Mancini