Per (non) difendersi dalle emozioni: Tre liriche di Eat the catfish

La paura di essere vulnerabili, per amare e lasciarsi amare, e il tentativo di salvarsi dalla fragilità dei legami stessi, narrati attraverso la contraddizione di una storia d’amore che cerca ossessivamente di proteggersi, di chiudersi di fronte alla possibilità del dolore. Tre liriche, spettacolo vincitore della decima edizione di Direction Under 30, ci immerge nei pensieri di due amanti che si alternano, si confondono e si sovrappongono attraverso un io a sua volta tripartito, incarnato sulla scena da Jacopo Neri (attore, regista e drammaturgo), Dario Caccuri e Chiara Ferrara.

L’ambiente viene permeato dalle parole pronunciate dagli attori e dal loro accompagnarsi, accavallarsi e intrecciarsi al discorso musicale, realizzato da Enrico Truffi. Nella connessione di testo e musica la drammaturgia si accosta alla partitura musicale, come a comporre una canzone il cui ritmo si modula su una costante tensione, tra lirismo e ironia, attraverso i pensieri e le paure dei due amanti, sviscerati e portati all’eccesso, all’irrazionalità e all’ossessione. La scena si crea perciò a partire dal prevalente elemento testuale/musicale: gli attori si muovono attorno a tre sedie e a un microfono, progressivamente alternato a un megafono, sperimentando diverse intensità vocali e comunicative – amplificate dal microfono, distorte dal megafono – sotto un tenue cono di luce al centro del campo visivo.

La narrazione si snoda su un arco temporale di tre anni e scandisce il racconto di un amore, dalle prime fasi dell’innamoramento fino allo sfumare di una storia. Sono tre diversi momenti attraversati da un’indistinta e costante paura legata all’impossibilità di controllo sul mondo esterno, senza accorgersi che proprio dietro questa imprevedibilità si nasconde la possibilità di un incontro inaspettato, a cui nessuno crederà mai. Questo accade tra i due amanti, quando scivolano insieme su un marciapiede bagnato: «La fortuna ci ha unito soli, senza testimoni». Da queste prime battute inizia a delinearsi la precisa strategia di protezione dal mondo esterno, incognita pericolosa, che sia dentro o fuori le pareti di una stanza: nessuna traccia deve rimanere di questo amore, questo amore non deve essere trovato, «così noi ci custodiamo, amore».

Segue la consapevolezza dell’irrealistica assenza di dolore nella costante possibilità della perdita, tanto spaventosa da portare l’io a cercare ossessivamente conferme in una successione di fallimentari tentativi di autosabotaggio di fronte all’amante, fino a portare i pensieri a eccedere nella totale irrazionalità. Il buio scende generando insieme alle parole, sempre più convulse, un accumulo progressivo di energia: «Io sento crescere la rabbia». D’un tratto la voce si interrompe per lasciare interamente spazio alla musica: la tensione lascia i corpi e la parola per occupare il volume della scena attraverso l’incalzare dei bassi. Le tre figure diventano ombre danzanti grazie alle torce dei telefoni che agitano in mano.

«Chi ci sarà dopo di te?» – «Chi ci sarà dopo di me?».

La narrazione riprende con un’accordatura più bassa quando un giorno, all’improvviso, la storia inizia ad esaurirsi e i ricordi non bastano di fronte a una felicità stretta nei freddi punti di un elenco di momenti passati. Ritorna il tentativo di protezione attraverso la definizione di confini che dal corpo, dal tenersi mano nella mano o dal ricordo di un neo, riempiono i luoghi di ricordi, di date, di ore, in una geografia che attraversa il tempo e lo spazio. Di nuovo, nessuno dovrà entrare in questo passato amore. Ma la paura dell’oblio si fa più forte del dolore del ricordo, che rimane debole e sfumato con il trascorrere del tempo: inizia così la spasmodica ricerca di prove, testimonianze, fotografie che documentino l’esistenza di ciò che è stato, chiedendo aiuto a quel mondo inizialmente intruso, da lasciare fuori, lontano. Nel finale una sorta di pacificazione rispetto alla paura dell’abisso in cui le storie d’amore rischiano di precipitare, una volta concluse: l’incontro, il confondimento tra gli amanti, la condivisione di un pezzo di strada, sono tracce che rimangono addosso, parte del puzzle del proprio passato.

«Aspetto il mio prossimo amore» – «Ti farà battere il cuore».

La scena spoglia e il movimento di voci e suoni nello spazio permettono di immergersi in un rimuginio sistematico che porta alla luce paure e debolezze, senza tuttavia riuscire ad esplicitare le proprie, in un passaggio forse non immediatamente evidente, pur sgretolandosi nel ripetersi dello stesso meccanismo di difesa di fronte allo spaesamento dell’imprevedibile.

Non il racconto di un amore ideale o desiderabile, quanto di insicurezze e fragilità, attraverso la reiterazione, lo scavo ossessivo dei pensieri portati all’eccesso fino alla contraddizione – “ironia in versi” è l’espressione usata dalla compagnia per spiegare l’inserimento del linguaggio ironico all’interno del registro lirico, nonostante talvolta i due livelli risultino non immediatamente riconoscibili. L’ironia diventa così lente sulle crepe del dubbio e dell’irresolutezza, schermo di fronte alla difficoltà di accettare un alveare di emozioni che a volte ci sfuggono, forse intense o sconosciute.

Petra Cosentino Spadoni