Esercizi antropocentrici su piazze veloci: Ecologia capitalista di Dimore Creative

Il pastore di Belcastro Saverio Riccelli è un creatore di contenuti video in cui dialoga con  Manue, una capra del suo allevamento: la interroga, l’ascolta, ma soprattutto la utilizza per parlare di tutt’altro. In questo modo Manue diventa correlativo oggettivo di una narrazione autobiografica. Questa storia rivela come il racconto di sé nel contemporaneo abbia bisogno di attivatori.

È proprio dalla volontà di riflettere intorno a questi processi di autonarrazione contemporanei che nasce Ecologia Capitalista di Dimore Creative. Il racconto in prima persona, che è il cuore di questo spettacolo, diventa un esercizio in cui l’io è scomodo nella sua posizione privilegiata, ma riesce a utilizzare questa postura di scomodità come nucleo di attivazione.

Il tema attorno a cui ruota il testo viene presentato subito e attraverso una confessione: questo lavoro non nasce da una particolare attitudine all’ecologia, ma dalla necessità di partecipare a un bando di produzione specifico sull’argomento. Questa motivazione pretestuosa presentata da subito ci comunica già l’aderenza a un codice: come spesso nel linguaggio dei vlogger Ecologia Capitalista inizia con una micro-sinossi attraverso cui lo spettatore viene accattivato, forse anche direzionato nell’attenzione, ma la storia sarà la stessa rispetto a quanto ci viene presentato?

Ad essere raccontata infatti è una prospettiva individuale e antropocentrica nei confronti dell’ambiente, un modello di sostenibilità quasi olistica, in cui l’ecologia interiore non può essere scissa da quella che si occupa della collettività.

Gli attori in scena (Pietro Cerchiello e Tommaso Imperiali) si presentano con apparente semplicità: vestiti di nero, connotati da piccoli elementi distintivi nell’abbigliamento, le sneakers bianche, gli elastici ai polsi, una catenina al collo. Uno dei due imbraccia una chitarra creando una drammaturgia sonora del racconto attraverso brani pop mainstream che intercettano immediatamente il pubblico; l’altro, poco dopo, inizia il suo monologo continuando il testo iniziato dalla chitarra, cambiando il canale, ma provando a costruire spontaneamente una narrazione a una sola voce.

L’esito performativo a cui assistiamo nasconde dietro alla maschera della spontaneità, una costruzione stilistica frammentata, che prende e riunisce codici differenti che si toccano non necessariamente incastrandosi. Gli attori in scena affermano fortemente la loro appartenenza a una generazione che segue e attinge a piene mani dagli stimoli visivi delle narrazioni video in cui il concetto di “relatable”, la possibilità di immedesimarsi diventa nucleo semantico; tutto infatti in questo spettacolo sembra richiamare un habitus confidenziale.

Questo linguaggio narrativo nutrito dagli stimoli del contemporaneo, si incrocia però con un’altra voce, citata letteralmente nello spettacolo e impossibile da ignorare: quella di Ascanio Celestini, che Lorenzo Mango nel suo libro Il novecento del teatro individua come l’ultimo degli artisti ancora con un piede nel secolo scorso. Celestini è cantastorie di un teatro di narrazione che si tuffa nelle sue storie guidando sempre la corrente.

Come si possono allora unire questi due modi così diversi di abitare le storie? Parlando con gli autori di questo spettacolo è stato evocato il concetto di “piazza veloce”: sebbene loro parlassero  di questa definizione in relazione ai social, dicendo che «I ragazzi si spostano nel momento in cui capiscono che non è più il loro posto», forse le vere “piazze veloci” sono i linguaggi. Come nelle piazze reali, tutti sappiamo dove si riuniscono i più giovani, i punti di ritrovo però, continuano a portare i segni urbani ingombranti del passato, che i nuovi avventori non possono fare a meno di sovrascrivere e reinterpretare.

Mila Di Giulio