Kobarid/Caporetto. La disfatta dell’uomo. Sullo spettacolo di Matrice Teatro

Nonostante siano trascorsi più di cento anni, ancora oggi Caporetto spalanca gli immaginari di una sconfitta irreparabile, di un’umiliazione senza pari. Kobarid nasce da un inciampo in un podcast di Alessandro Barbero sulla disfatta di Caporetto. Il coinvolgente racconto dello studioso piemontese ha disvelato a Gioele Rossi – giovane fondatore della compagnia Matrice Teatro insieme ad Alberto Camanni, con lui regista dello spettacolo – un fatto cruciale della storia nazionale, ormai lontano nel tempo ma ancora vivido nella memoria, almeno lessicale.

Kobarid è il toponimo in sloveno. Caporetto, in italiano. La scelta della lingua non è mai un fatto secondario, poiché costruisce l’identità di un luogo e delle persone che lo abitano. Tant’è che oggi risulta chiaro che scrivere Kyiv sia profondamente, ideologicamente, diverso da Kiev. Ma a Kobarid chi era l’invasore? Su quel fronte carsico, in quelle trincee fangose, chi conquistava e chi difendeva un territorio? Gli storici hanno illustrato, spiegato e interpretato a fondo gli avvenimenti e le conseguenze della Prima Guerra Mondiale, tuttavia l’intento del lavoro di Matrice Teatro non si inserisce in questo solco di ricerca. Rossi e Camanni utilizzano la sconfitta dell’esercito italiano del 1917 come mero pretesto per affrontare la figura del soldato in guerra, un soldato semplice che viene spedito al fronte, fiero e forte della propaganda a cui è stato sottoposto. La loro indagine verte sulle figure col grado più basso dell’assetto militare e sulla loro impossibilità di avere voce, di assumere una postura dissimile dall’ordine dei superiori. Ecco allora che la lingua (e le questioni che ne derivano) viene azzerata, rimangono solo lacerti di voce, e si sceglie di narrare episodi, situazioni e sentimenti attraverso un linguaggio al grado zero, che tende all’universale: la clownerie.

Un soldato con la faccia imbrattata di fango; abiti iperdimensionati laceri; filo spinato che gli circonda la vita, oggetto in cui rimane impigliato e da cui districarsi goffamente; un lungo bastone che, imbracciato, pare un fucile. Un catino d’acqua illuminato; una cassa di legno in cui chiudersi, tenendo aperta solo una piccola fenditura per l’arma, pronto all’attacco, proprio come dentro una trincea; palloncini coperti da veli neri che figurano i caduti, poi scoppiati come granate; un velo bianco da cui esce, come in un parto, un elmetto tipico della guerra di posizione di inizio Novecento. Sono alcune delle immagini che si susseguono nello spettacolo, che tentano di offrire alla tragedia della guerra un tono poetico, lirico, emotivo. Il pretesto, però, non è neutro poiché storicamente ben inquadrato e le suggestioni non sempre raggiungono il risultato sperato. Non tutti i conflitti sono identici, non tutte le divise sono uguali, pur generando morte e devastazione, povertà e desolazione. Non è infrequente, infatti, e oggi ancor di più, trovarsi schierati e parteggiare. Che fare allora di fronte alle parole imperative di invito a rientrare in battaglia, dense di retorica nazionalista, di Luigi Cadorna, che sentiamo riprodotte in scena? Anche se ormai sbandato e distrutto, il soldato torna alla carica. In fondo, non si è troppo lontani dal tragico motto “credere, obbedire, combattere” che segnerà gli anni a venire.

Questi giovani uomini di un’Italia ancora frammentata, persone anonime e comuni mandate a combattere per una causa che non hanno mai sentito particolarmente forte, sono ancora parte delle nostre storie famigliari, ormai narrazioni quasi mitiche di antenati a cui fu riservato il destino del fronte. Moltissime sono le lettere accorate che sono state spedite dalle trincee ai parenti: alle madri, alle mogli, alle fidanzate rimaste a casa. Ecco che, in forma di aeroplanini di carta, alcune lettere volano sul pubblico in quello che appare però, anche grazie ai rumori di scena, un bombardamento aereo, armamento non certo utilizzato in modo decisivo durante il primo conflitto mondiale. Si insinua allora il dubbio che la battaglia di Caporetto non sia così importante: siamo di fronte al tentativo di riportare a un piano estremamente umano e viscerale l’esperienza percepita della guerra, qualunque essa sia, con l’impaccio di un clown.

Oggi che la guerra torna con vigore a bussare alle porte della nostra porzione di mondo, abbiamo forse paura e sentiamo la necessità di raccontare storie, di dare volti per provare un po’ di sgomento e, al contempo, di generalizzare per non sentirci oppressi, per fuggire dal disumano cinismo dell’abitudine. L’esperienza bellica strazia, colpisce, dilania e poi ci vogliono intere generazioni per ricostruire tutto. Quasi sempre ce la si fa.

Andrea Malosio